6 ottobre 2025 - Il conflitto israelo-palestinese e la missione della Global Sumud Flotilla hanno riacceso il dibattito sulla sovranità delle acque antistanti la Striscia di Gaza.
La questione venne per la prima volta affrontata con l’Accordo del Cairo tra Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) e Israele del 4 maggio 1994.
In quel frangente Tel Aviv riconobbe pieni poteri all’OLP nella Striscia di Gaza ed, in particolare, all’art. V, par. a) venne previsto che la giurisdizione territoriale dell’Autorità palestinese venisse esercitata anche sulle acque territoriali.
Inoltre, l’art. XI dell’allegato I, relativo alla sicurezza al largo della costa, disciplinava tre zone (K, L e M) - estese fino a 20 miglia marine dalla costa - denominate Maritime Activity Zones.
Le zone K e M sono aree chiuse, in cui la navigazione è consentita soltanto alle forze navali israeliane mentre la zona L rimaneva aperta alla pesca e alle attività economiche e da diporto.
Come è noto, il 3 gennaio 2009 fu istituito da Israele un blocco navale con l’obiettivo dichiarato di impedire il contrabbando di armi verso Gaza e fermare operativi di Hamas che potessero partire via mare con imbarcazioni cariche di esplosivi.
Le conseguenze di questo blocco ricadevano anche sulle attività di pesca sia costiera che d’altura.
Il 2 gennaio 2015 la Palestina – che nel frattempo era stata riconosciuta “Stato osservatore permanente” delle Nazioni Unite con risoluzione del 29 novembre 2012, aderiva alla Convenzione di Montego Bay sul diritto del mare del 1982 (d’ora in poi UNCLOS) che entrava ivi in vigore, secondo l’art. 308 della Convenzione, dal 1° febbraio 2015.
Successivamente, ai fini dell’esplorazione e sfruttamento economico delle aree costiere, fu depositata la Dichiarazione relativa ai confini marittimi dello Stato di Palestina, in conformità con la Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare del 31 agosto 2015 (https://www.un.org/Depts/los/LEGISLATIONANDTREATIES/PDFFILES/PSE_2015_Declaration.pdf )
Negli articoli 7, 8 e 9 si faceva menzione della ZEE palestinese estesa fino a 200 miglia nautiche, entro le quali la Palestina rivendicava i connessi diritti sovrani.
Il 24 settembre 2019 venne depositata una seconda dichiarazione (https://www.un.org/Depts/los/LEGISLATIONANDTREATIES/PDFFILES/PSE_Deposit_09-2019.pdf ) che richiamava la prima e includeva coordinate geografiche e una mappa illustrativa che definiscono le linee di base e i limiti della rivendicazione palestinese.
I contenuti di quella seconda dichiarazione erano nella sostanza identici alla prima, con l’aggiunta però di una mappa a colori riproducente la ZEE palestinese, le cui coordinate geografiche erano state determinate utilizzando il World Geodetic System 1984.
Non essendo, quello palestinese, uno Stato riconosciuto da Israele, non si fece attendere la contestazione di Tel Aviv (https://www.un.org/depts/los/LEGISLATIONANDTREATIES/PDFFILES/communications/ISR_PSE.pdf ) che se da un lato non aderisce alla UNCLOS, dall’altro, molto astutamente, affermava che solo gli Stati sovrani hanno il diritto alle zone marittime, compresi i mari territoriali e le zone economiche esclusive, nonché di dichiarare i confini marittimi.
Una volta chiarite le ragioni del contendere occorre, però, sottolineare che la disputa è frutto anche delle differenti metodologie attuate da palestinesi e israeliani per la delimitazione dei rispettivi confini marittimi.
I primi, in ottemperanza agli articoli 74 e 83 della UNCLOS, hanno fatto ricorso al criterio equitable principles, che contempla l’esigenza di un accordo tra Stati richiamando l’Accordo di Oslo.
Diversamente, Israele adotta il principio della median equidistance line che consente invece di eludere il vincolo di un modus vivendi tra Stati rivieraschi.
Non è poi di scarsa importanza il peso dell’assenza di uniformità, in seno alla comunità internazionale, del pieno riconoscimento delle prerogative sovrane dello Stato di Palestina nonostante la maggioranza dei favorevoli.
Caso emblematico è la vertenza riguardante l’esplorazione di idrocarburi e installazione di giacimenti offshore lanciato con un bando del Ministero dell’Energia israeliano (cui ha partecipato anche l’ENI) del 13 dicembre 2022 (4° Offshore Bid Round - OBR4).
Alcune associazioni umanitarie palestinesi, constatando che la procedura richiamasse il diritto interno israeliano, denunciarono l’annessione de facto e de jure delle aree marittime già oggetto di rivendicazione della Palestina, scavalcando l’UNCLOS.
Esse fecero appello alle società coinvolte di astenersi immediatamente dalla partecipazione “ad atti di saccheggio delle risorse naturali sovrane del popolo palestinese” in violazione all’art 55 del regolamento annesso alla Quarta Convenzione dell’Aja concernente le leggi e gli usi della guerra terrestre che vieta lo sfruttamento delle risorse non rinnovabili del territorio occupato, a scopo di lucro commerciale e a beneficio della potenza occupante.
Israele, che non è Stato parte della Convenzione, in virtù di tale disposto normativo, è da considerarsi come mero amministratore e usufruttuario.
La soluzione alle criticità derivanti dai diversi approcci giuridico-internazionali alla questione della territorializzazione delle acque antistanti la Striscia di Gaza sembra al momento presentare tre vie: una di natura ancora giudiziale innanzi alla Corte Internazionale di Giustizia dell’Aja; una di natura diplomatica, attraverso una conferenza multilaterale dei Paesi mediterranei e, certamente quella più rapida, ma per sua stessa natura maggiormente foriera di instabilità e conflittualità, che tende ad affrontare le controversie attraverso il perseguimento di una mera politica di potenza.
Ad oggi, come dimostrano gli eventi di stretta attualità sembra essere (ancora) quest’ultima a prevalere.
Avv. Alfonso Mignone